mercoledì 10 settembre 2014

Il torto marcio

Ce l'ho col pd?
Si! Ce l'ho col pd!!

Lo dico col giusto livore, almeno per questoquesto, questoquesto e quest'altro motivo, e ce ne sono molti altri.
Questo però è così stupido, evidente e pesante.. un macigno che ho provato a ignorare o a tenere sotto il pelo della mia coscienza finora, ma adesso basta.

È ormai Cassazione che il pd ha fatto un favorone alla mafia inserendo nella formulazione del 416ter quelle due paroline "modalità mafiose" che indeboliscono di molto la concreta possibilità di applicarlo e dunque il senso stesso del reato.




Nonostante le molte critiche e richieste di modifiche, nei giorni a cavallo al fattaccio non c'è stato tiggì o talk show in cui un politicante piddino non abbia - come sempre fanno - abbaiato sordo, sostenendo fieramente quel gesto coi soliti vuoti e falsi slogan. Qui un esempio particolarmente eloquente:




Giustamente, tra gli altri, Gianni Girotto (m5s) ha ricordato l'ostinazione del suo schieramento nel fare opposizione e nel dare visibilità alle proprie ragioni, che è spesso costata loro provvedimenti disciplinari comminati da presidenti ottusi, intolleranti e insofferenti come a voler privare la democrazia del fondamentale controllo che solo una decisa, attenta, magari intransigente, obbligatoriamente fastidiosa opposizione può e deve garantire.


Questa è stata una delle purtroppo molte occasioni in cui viene tracciata una linea netta tra chi cerca il bene della collettività, ha il rispetto della funzione pubblica, della legalità costituzionale, e chi no anche se a volte finge.

E lo sottolineo, FINGE.
Perché l'ignoranza in buona fede non può esistere a certi livelli, lassù ove si puote ciò che si vuole o quasi, se c'è ignoranza è solo per colpevole indifferenza
Il resto è volontaria azione sovversiva, doloso attentato contro la Costituzione dello Stato.
Reato che non a caso è stato a sua volta svuotato di senso!

Linee nette così tracciate nei vari temi come l'ambiente, la cultura, la giustizia, la sanità, l'informazione, l'istruzione - su cui la 'politica politicante' passa di solito come un bulldozer, come si diceva una volta, ora invece si dice 'frecciarossa' che fa più nuovo ed elegante - compongono insieme, banalmente, la funzione pubblica!
E quelli che scelgono di stare dall'altra parte sono, altrettanto banalmente, dei criminali sovversivi.
Specialmente se ad essi sono affidate funzioni pubbliche!
Ancor più se hanno prestato giuramento di fedeltà alla Costituzione!!


Ce l'ho col pd perché su ciascuno di quei temi si è più volte schierato - in torto marcio, ma con stolida fierezza! - al di là di quelle linee, al di fuori di quel perimetro.
In ognuno di quei casi TRADENDO la propria storia, la propria tradizione, lo stesso motivo della propria esistenza e del consenso dei suoi molti 'aficionados' evidentemente troppo distratti o troppo occupati a mettere insieme il pranzo con la cena per avere anche il tempo e la voglia di formarsi un consenso consapevole.

Nell'attesa di vedere qualcuno pagare per i danni immani che ne sono seguiti, ce l'ho col pd e con tutti quei 'complici e profittatori' che 'sanno quello che fanno' e 'tacciono e quello che sanno'.

Nell'attesa di una tale epifania, buon anno.



venerdì 5 settembre 2014

I rischi dell’ “antipolitica” tra legge elettorale e referendum (*)

Siamo onorati - ma non felici - di omaggiare il prof Gaetano Azzariti (ri)pubblicando una sua analisi molto profonda e interessante che, a 7 anni esatti dalla sua pubblicazione, che in alcuni punti si direbbe visionaria se non fosse che è questo paese a non cambiare, se non in peggio e in ogni caso a peggiorare senza alcuna fantasia.


1. Impressionanti le cifre che abbiamo letto sui quotidiani nei giorni passati (Ilvo Diamanti su “La Repubblica”) e che sono alla base della preoccupata discussione sull’ “ondata antipolitica”: circa il 70% degli italiani non si sente rappresentato nelle istituzioni; addirittura l’82% degli italiani non ha fiducia nel ceto politico e ritiene che esso operi per interesse proprio e non per il bene pubblico.
Dati drammatici che dovrebbero preoccupare tutti i cittadini, gli studiosi e i politici in primo luogo, non solo perché coinvolge la legittimazione ultima e sostanziale del ceto politico e di governo attualmente dominante in Italia, ma anche perché rischia di travolgere l’intero sistema politico, logorando pericolosamente il tessuto democratico del nostro Paese.
In questa situazione, io credo, c’è una domanda di fondo che deve condizionare ogni nostra riflessione, ogni comportamento o giudizio politico, e non mi riferisco solo alla nostra odierna discussione sui sistemi elettorali.
La domanda è la seguente: le leggi elettorali ovvero la normativa che verrebbe ad essere introdotta dall’eventuale esito positivo del referendum, favoriscono o riducono l’insopportabile e grave distacco tra classe politica e opinione pubblica? Ove si ritenesse – o si accertasse – che il divario tra il “Palazzo” e la “piazza” venga ad accentuarsi, già ciò solo dovrebbe indurre ad abbandonare la strada fin qui percorsa che ha condotto ad approvare la legge elettorale vigente. Perderebbe, inoltre, tutta la sua attrattiva anche il referendum proposto, il quale anziché porsi come strumento di partecipazione popolare, si rivelerebbe un ulteriore strumento di separazione tra ceto politico e società civile, rimanendo – il referendum, così come la legge elettorale - all’interno della logica “politicistica” da tutti criticata e che ha reso sempre più autoreferenziale il ceto politico italiano.
Esporrò rapidamente le ragioni per le quali, ahimé, io temo che tanto le leggi elettorali, quanto la normativa di risulta definita dai quesiti referendari, rischiano di accentuare il distacco tra politica e società in questa situazione non semplice.
Ragioni di tempo mi impediscono di soffermarmi sul passato, anche se un'osservazione di carattere generale vorrei farla. La lunga transizione italiana, almeno dal 1993 (ma il tema della governabilità è ancor più risalente), è stata dominata dalla ricerca di maggiore governabilità, dal tentativo inesausto di dare sempre maggiore stabilità ai Governi. Mi chiedo se non si sia ecceduto, soprattutto in retorica: affermando di voler “restituire lo scettro al principe”, ma di fatto promuovendo un sistema politico e della rappresentanza che sostanzialmente ha esasperato il suo carattere autoreferenziale. Dibattiti politici e campagne elettorali sempre più dominate dalla competizione tra leader espressione di apparati sempre più professionali e sempre meno collegati agli interessi sociali hanno progressivamente trasformato la rappresentanza politica in un vuoto simulacro e le elezioni il mezzo tecnico per la scelta delle élite di governo, spesso percepite come meri gruppi di potere al governo del Paese.
Senza poter discutere la tesi che ho esposto e che certamente richiederebbe di essere compiutamente valutata, mi soffermo qui brevemente solo sulla legge elettorale vigente e sul referendum per quanto riguarda la normativa di risulta.
Con riferimento alla legge Calderoli credo che la distanza che separa rappresentanti e rappresentati si evidenzia soprattutto nel meccanismo delle liste bloccate: esso ha garantito ai partiti la scelta dei parlamentari, ma ha al tempo stesso accentuato la distanza con il corpo elettorale. Non ha torto l'opinione pubblica quando si lamenta di non poter più scegliere i parlamentari. Ha ragione sotto questo profilo chi rileva che ormai i rappresentanti del popolo sono in realtà “nominati” dai partiti. Credo inoltre che un tale sistema sia tra le principali cause dell’evidente crisi in cui versa il Parlamento; un organo di rappresentanza popolare i cui membri sono stati designati esclusivamente per meriti di partito. Il referendum su questo delicato profilo non interviene, si limita, nel terzo quesito, a vietare le candidature multiple.
Vi è di più: non solo il referendum non appare un rimedio efficace alle più evidenti storture della normativa vigente (le liste bloccate, ma anche molto altro), oltre a ciò la normativa di risulta che deriverebbe dal ritaglio operato dall’abrogazione referendaria finirebbe anche per accentuare il distacco tra società civile e ceto politico. Concedere infatti ad una sola lista un premio di maggioranza abnorme, non prevedendo alcuna soglia minima per essere attribuito, rendendo ininfluenti i voti assoluti riportati, al fine di assicurare in ogni caso la maggioranza dei seggi ad un solo soggetto politico (sia una lista espressione di un unico partito, sia un listone espressione di un eccentrico mucchio politico-partitico, in fondo per le considerazioni che si stanno qui svolgendo non importa), appare una spericolata ingegneria costituzionale, una forzatura contronatura, che non potrà sortire effetti di riavvicinamento tra elettori ed eletti. Il premio si configura come un vero “dono divino” attribuito al vincitore di una competizione politica, per sottrarlo agli umori ed alle incertezze di un corpo elettorale diviso. Una “lista” vincitrice non per volontà degli uomini e delle donne, ma grazie ad un “premio” ricevuto da un meccanismo elettorale disumano, sostanzialmente indifferente al suffragio.
Potendo governare anche senza il volere della maggioranza degli elettori o comunque non essendo determinante la conquista di un suffragio esteso, potendo conquistare la maggioranza parlamentare anche solo per le divisioni altrui e non per forza propria, alla “lista” si apre ogni possibilità di tatticismo politico. La competizione è tra liste inanimate, le quali non hanno in fondo più bisogno di una effettiva legittimazione popolare, ma solo di vincere sul piano della tattica e della tecnica, della furbizia e dell’immagine. Un sistema di traduzione dei voti in seggi che non ritengo possa ridurre la distanza del ceto politico dall'opinione pubblica, almeno di quella opinione pubblica che aspira a scegliere i suoi rappresentanti politici e che invece vedrebbe un unico gruppo (partito/partiti, lista/listone) “magicamente” al comando. Non sarà più un “uomo solo al comando”, però si avrà una sola lista al comando, cosa poi si celi dietro l’inanimata “lista” (un partito, un leader, più partiti, più lobby, amici sodali o nemici opportunisti) non è dato sapere, sarà il “giuoco” della politica e delle alleanza a definirlo di volta in volta sulla base di calcoli pre-elettorali, rimessi al libero arbitrio dei soggetti politici, che non saranno sempre trasparenti. Per chi punta ad una riduzione della distanza tra ceto politico e opinione pubblica non mi sembra un gran successo, anzi un drammatico ulteriore passo indietro.
In tutti i casi credo che si sia sotto stimato gravemente il problema vero e drammatico della rappresentanza, accecati dalla governabilità, non si è avvertito che un sistema politico in una democrazia pluralista può trovare la sua efficienza solo se riesce a coniugare le logiche del governo con quelle della rappresentanza della società frammentata e divisa.
Ancora questa mattina ho sentito l'onorevole Fassino denunciare le difficoltà del sistema politico di pervenire ad una “decisione”, e le esemplificazioni che ci ha proposto sono parse significative in proposito. Personalmente concordo con quanto ci è stato ricordato. Nondimeno credo che sarebbe importante sottolineare che le inefficienze della politica, le incapacità a decidere sono rese possibili proprio dall’assenza di ogni responsabilità politica gravante sui soggetti titolari degli organi competenti. Conseguenza e non causa di una responsabilità politica che si è andata nel tempo isterilendo, finendo per non corrispondere più ad alcunché di reale: una mera “finzione” di rappresentanza, che lascia liberi i rappresentanti di governare senza responsabilità, che lascia libero sfogo ai tatticismi esasperati dei piccoli e dei grandi partiti, dei tanti leader in cerca di visibilità. Non credo cioè che la paralisi decisionale si possa imputare ad un eccesso di rappresentanza del sistema politico. Personalmente penso l’inverso: è il difetto di rappresentanza politica del sistema che ha favorito la irresponsabilità dei competitori politici in un sistema che si ritiene in fondo libero da ogni vincolo programmatico, anche se formalmente contratto tra le parti che ottengono la maggioranza parlamentare. Ciò che conta, in ultima analisi, è solo immagine e visibilità, sperando di potersi ripresentare ogni volta “vergini” dinanzi all’incorporeo ed estraneo elettore/spettatore.
2. Credo sia giunto il tempo di cambiare passo. Ritengo non possa più eludersi il tema della rappresentanza effettiva. Temo che l’inconsapevolezza o la pigrizia rischi di trascinare il ceto politico italiano (complessivamente e dunque anche genericamente considerato) verso un punto di delegittimazione che fa temere per le sorti del sistema politico complessivo. D’altronde proprio in questi giorni sono state pronunciate parole di grande preoccupazione da parte di autorevolissimi esponenti politici, evidentemente non ignari dei pericoli.
La via da intraprendere se ci si volesse muovere entro una nuova prospettiva, innovativa rispetto al passato, non sarebbe ardua da individuare, né sarebbe difficile percorrere. In fondo è già stato detto: si tratta di coniugare governabilità e rappresentatività dovendo essere rivalutate entrambe se si vuole ridurre la distanza tra rappresentanti e rappresentati, ed assieme dare maggiore legittimazione e forza alle decisioni politiche. Neppure sarebbe complicato individuare i meccanismi istituzionali e politici per poter far valere entrambe le esigenze richiamate e innestare un processo politico virtuoso per recuperare la perduta legittimazione, come subito indicherò.
Ma prima di elencare le misure necessarie per garantire rappresentanza e governabilità è opportuno non nascondere quello che appare il primo e più alto ostacolo da superare. La maggiore difficoltà – l’enorme macigno che ostruisce la via – è d’ordine culturale e politico. Si tratta, infatti, di superare l’ostilità diffusa nei confronti delle logiche proporzionaliste della rappresentanza. Non sono molti in realtà ancor oggi coloro che in Italia, sfuggendo alla retorica maggioritaria, sono disposti ad ammettere che un sistema elettorale fondamentalmente proporzionale possa tranquillamente coniugarsi con le logiche separate, ma non autonome, della governabilità. Eppure appare di tutta evidenza, basta alzare lo guardo oltre la polemica politica spicciola. Basterebbe prendere sul serio le logiche proporzionaliste della rappresentanza (che, come subito dirò, non sono prive di problematicità e anche di pericoli) e conformarle ad un sistema complesso in cui la ricchezza del pluralismo sociale sia conservata e la stabilità della decisione politica sia facilitata. Resistenze, preconcetti e ostilità diffuse impediscono, invero, di prendere in considerazione uno scenario effettivamente innovativo rispetto alla paralizzante situazione attuale e – secondo gli auspici – in grado di ridurre quel gap tra opinione pubblica e politica che è alla base di queste preoccupate considerazioni.
Non ho il tempo per soffermarmi ad esaminare nello specifico le diverse possibili opzioni o modelli elettorali d’impianto proporzionale che, al contempo, si fanno carico delle ragioni della “governabilità”. Mi limiterò pertanto ad un rapido elenco di problemi. Mi riferisco d’altronde a misure ben note.
Si afferma, con qualche ragione, che nel nostro Paese un sistema proporzionale “puro” rischia di produrre un’insostenibile polverizzazione della rappresentanza in Parlamento, con l’effetto di rendere fragile ogni possibile compromesso parlamentare. In tal caso la dialettica parlamentare finirebbe per degenerare nel particolarismo degli interessi, non riuscendo a pervenire alla necessaria sintesi politica di carattere generale. Per evitare quest’esito - infausto per l’intero sistema rappresentativo – si ritiene utile introdurre dei correttivi nella distribuzione dei seggi pur volendo salvaguardare la logica proporzionalistica.
La prima misura normalmente richiamata è rappresentata dal premio di maggioranza. Una regola elettorale che può adottarsi quale che sia il sistema prescelto, alterando l’esito del voto e modificando la distribuzione dei seggi per “premiare” uno tra i contendenti (o un gruppo di questi). Uno strumento, a mio modo di vedere, contronatura, che ha grande successo nel nostro Paese (dalla legge Acerbo alla normativa della legge attualmente vigente, passando per la legge truffa e prospettando da ultimo un premio neppure più alle coalizioni ma solo di lista così come disegnato dal ritaglio del quesito referendario), ma che non trova analoghi in nessun altro sistema elettorale dei Paesi occidentali di democrazia pluralista.
Personalmente ritengo che tanto la normativa vigente, quanto quella che risulterebbe dall’esito positivo della consultazione referendaria, siano incostituzionali (tanto l’irrazionalità dei premi regionali alle liste o coalizioni che si presentano al Senato nella legge Calderoli, quanto la mancanza di una soglia nell’un caso e ancor più nell’altro, a mio modo di vedere, si pongono in contrasto con gli artt. 1, 48 e 49 della Costituzione). Ma, in fondo, è la logica del “premio” che mi sembra criticabile. Tanto più se si considera che un’altra misura, ben più significativa, potrebbe essere adottata.
Ci si riferisce evidentemente alla soglia di sbarramento, che, se posta al 5%, nel contesto italiano, sarebbe tutt’altro che irrilevante. Questa misura è da preferire alla precedente in quanto seleziona i soggetti politici in “entrata”, imponendo ad essi un grado rilevante di rappresentatività, ma almeno non snatura l’esito del voto e la distribuzione dei seggi in “uscita”. Anche la “soglia”, così come il “premio”, altera la parità delle condizioni tra tutti i possibili competitori e tra i tanti ipotizzabili soggetti politici, con una fondamentale differenza: lo sbarramento, ottenuto l’obiettivo di escludere chi non raggiunge dei risultati minimi di rappresentatività, si arresta e lascia riespandere in tutta la sua virtualità il principio di eguaglianza tra i soggetti politici che il criterio di distribuzione proporzionale dei seggi possiede. L’alterazione in uscita opera invece una distorsione di tutto il procedimento di scelta della rappresentanza.
Invero, la misura correttiva che ritengo essere più significativa per raggiungere l’obiettivo di una riduzione della frammentazione politica e della polverizzazione della rappresentanza è ancora un'altra: quella costituita dalla riduzione del numero dei parlamentari. In questo caso, nel pieno rispetto della logica proporzionalistica, con una accorgimento affatto diverso dai precedenti, che non si propone di alterare l’esito del voto, si conseguirebbe una sorta di soglia di sbarramento “naturale”, e si renderebbe altresì più autorevole e funzionale l’organo della rappresentanza.
La forte riduzione nel numero dei parlamentari potrebbe anche essere accompagnata da una semplificazione del nostro sistema bicamerale “perfetto”: dal monocameralismo, al bicameralismo differenziato, all’istituzione di una Camera delle Regioni, sono pressoché infinite le ipotesi per superare una situazione che tutti sostengono non sopportabile, ma che tutti continuano a tollerare.
Potrei continuare nell’elencazione, ma credo che le misure indicate siano più che sufficienti per dimostrare quanto lavoro ci sarebbe da fare per chi volesse seriamente impegnarsi nella direzione indicata. A me sembrano chiari due aspetti: da un lato, come non sia difficile individuare la strada che potrebbe portare a ricercare la rappresentanza politica perduta; dall’altro, la assenza di una volontà politica e di un clima culturale disposto a percorrere la via indicata. In ogni caso, se anche non ci fosse la volontà e la “forza” politica per agire nella prospettiva indicata, credo valga comunque la pena di sollevare la questione.
3. Oltre alla rappresentanza, s’è detto, la stabilità. Anche in questo caso ritengo non sia difficile indicare misure in grado di favorire una maggiore stabilità dell’organo governo. Senza con ciò illudersi che si possa imporre una stabilità coatta in tempi di crisi della politica e di assenza di progetti politici ed ideali trascinanti.
E’ mia convinzione, infatti, che la capacità del Governo sia legata alla possibilità di attuare un indirizzo politico coerente e condiviso da parte di tutti i partiti della coalizione che lo sostengono. In tempi di crisi della politica non può stupire che i Governi non riescano ad esprimere grandi progetti, tampoco a realizzarli. La “stabilità” ricercata dagli inizi degli anni ’90 è stata inversamente proporzionale alla capacità dei partiti di progettare serie ed innovative politiche di governo. Questa la causa principale del fallimento di quelle strategie. La “stabilità” è stata configurata come una protesi di governo, per cercare di colmare il vuoto lasciato dalla fine della politica. Una artificialità che ha prodotto pessimi frutti: i ripetuti tentativi di rafforzare gli esecutivi, accompagnato dal vuoto di politica, hanno alla fine espresso tutta la loro pericolosità costituzionale nell’ultima proposta di revisione costituzionale. Svaporata nel tempo la cultura democratica dei contrappesi e della divisione dei poteri si è prospettato una forma di governo “assoluta” dove l’unica centralità ricercata era quella del governo e in esso del Premier, ogni altro organo costituzionale veniva considerato un intralcio. Poi, per nostra fortuna, il referendum costituzionale ha chiuso la partita.
Anche in questo caso è giunto il tempo di seguire altre strade, tutt’altro che ignote: quelle classiche della “razionalizzazione della forma di governo parlamentare”. Misure auspicate fin dall’Assemblea costituente, nell’o.d.g. Perassi, idonee a far valere pienamente la responsabilità costituzionale di direzione della politica generale del Governo di chi presiede la compagine governativa, mantenendo l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei Ministri, così come recita l’articolo 95 della nostra Costituzione.
Basterebbe introdurre le tre misure classiche a) dell’elezione del Presidente del Consiglio– e non dell’intero Governo – in Parlamento; b) il potere di revoca dei singoli Ministri attribuito al Presidente del Consiglio al fine di sostenere l’unitarietà di indirizzo politico del Governo; c) l’obbligo di eleggere un successore nel caso di voto di sfiducia del Governo in carica (c.d. sfiducia costruttiva).
Misure sperimentate (in Germania, ma non solo), che richiederebbero revisioni puntuali della Costituzione, di adeguamento e non di stravolgimento del testo costituzionale. Una strada dunque possibile.
Potrebbe a questo punto obiettarsi che seguire la via della revisione costituzionale richiede un tempo che non è compatibile con quelli sincopati cui costringe la richiesta referendaria, ma nulla esclude che si decida “subito” di ridare voce alle ragioni della rappresentanza sacrificata in questi anni, adottando una legge elettorale che restituisca al Parlamento il suo ruolo e la sua dignità in base alle indicazioni precedentemente prospettate (sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, con soglia di sbarramento al 5%, oltre alla riduzione del numero dei parlamentari e la differenziazione del bicameralismo che invece richiederebbero anch’esse modifiche del testo costituzionale), per poi, una volta “messi in sicurezza” il Parlamento e la rappresentanza politica, adottare le misure di razionalizzazione della forma di governo e di stabilità dell’organo Governo, che a quel punto potrebbero essere attuate con più convinzione e minori timori di involuzione autoritaria.
Nulla esclude… salvo il realismo politico. Che non è detto sia buona consigliera e comunque non è al riparo dell’onda antipolitica da cui s’è preso le mosse. Di realismo si può anche morire.

'democrazia soffice'


(*) Intervento svolto al Seminario organizzato dall’associazione ASTRID, il 28 maggio 2007, su “Quale riforma elettorale serve al Paese?” poi pubblicato il 5 settembre 2007 nel sito costituzionalismo.it

mercoledì 3 settembre 2014

Fare giustizia

La solita spiattellata di pseudonotizie sul quasiconflitto ucraino e situazione geopolitica correlata, come al solito indistinguibile da messaggi di propaganda firmati cia o mi5, ha oggi un ridotto tasso di inquietudine da terza guerra mondiale incombente: l'irosa pantomima di obama e merkel finalmente si scioglie come neve al sole del rublo, dopo aver ricevuto i primi colpi di quel boomerang che la voce del padrone ue chiama 'sanzioni'.

In controtendenza - affinché il fronte interno non sia l'unico a tenere deste le nostre preoccupazioni - sono invece i cablogrammi sul califfato, oggi in una variante ancor più da crociata vista la nuova decapitazione del giornalista usa Sotloff avvenuta ieri e quella minacciata di un giornalista britannico.

La differenza si avverte nettamente nel servizio che segue l'ennesimo vaniloquio di mentana, in particolare verso la fine, quando la voce fuori campo ci fa sapere che i britannici non se ne staranno con le mani in mano e afferma che è già pronta una task force delle forze speciali inglese per «andare a riprenderlo e fare giustizia».

«Fare giustizia».

lunedì 1 settembre 2014

Judge a magazine by its cover and a prime minister by his answers

Senza essere noiosamente retorico come l'annunziata e privo delle sue perle di saggezza tipo «un leader dura tanto quanto è efficace la sua azione di governo», le riconosco almeno di distinguersi dalle folle di scrivani adoranti la 'mossa del gelato'.
Rientra forse nella categoria "risvegli tardivi", ma c'è chi se la prende comoda e si chiede se «ha perso il tocco»!



Esseri di dubbia utilità che si guadagnano (?) il pane - o meglio, il pranzo alla buvette - sprecando fiumi d'inchiostro e tonnellate di carta per convincerci della sagacia, intelligenza e ironia della "risposta mediatica" di renzi che poi, con sprezzo del ridicolo, arriva a dire «Il giorno in cui mi pentirò di un sorriso vorrà dire che ho sbagliato mestiere»!

Come al solito è fiero di guardare il dito mentre l'Economist indica una barca che affonda, una barca su cui siamo tutti. 
Forse il 'premier' è contento del miglioramento da quando il Wall Street Journal prevedeva all'Italia del governo letta una stabilità da cimitero?

In ogni caso, si capisce che egli nota - o, anche peggio, pretende che gli altri notino - solo il dettaglio che lo riguarda dell'immgine di copertina, non prende il considerazione il quadro completo, che raffigura un draghi tra l'impotente e il rassegnato, per nulla convinto di quello che sta facendo, e la coppia merkel-hollande in prima fila nel disastro con la merkel che quasi beffarda sorride (o ci sorride), magari rimandando ai sorrisoni che insieme a sarko' ci indirizzò quando in sella c'era un sultano diverso, uno col riporto e i tacchi alti.

Non parliamo poi del titolo, #matteorispondi: stiamo colando a picco? E perché??

Mi ricorda quando un suo predecessore (uno a caso) disse «La media degli italiani è un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco... È a loro che devo parlare.», il registro è identico.

Ovvio, finalmente tutto torna.